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Il libro che avete tra le mani racconta un percorso di ricerca iniziato qualche anno fa e che si ripropone di rispondere a una sola domanda: come si articola il nostro rapporto con le tecnologie? Il quesito è motivato non solo dal crescente e ingombrante ruolo dei media contemporanei nelle nostre vite, ma dalla constatazione che ciò avvenga sin da quando l' Homo sapiens ha cominciato a espandere il suo dominio sulla Terra. Il problema delle tecnologie, insomma, non è recente e prerogativa esclusiva del mondo globalizzato, ma riguarda la nostra specie fin dalle origini.

Emerge con chiarezza che la consueta contrapposizione presente nel senso comune, per la quale da un lato ci sono i corpi e dall'altro le cose, non solo è inadeguata per la comprensione degli effetti delle tecnologie, ma rischia di nascondere i più profondi e radicali meccanismi che sovrintendono l'interazione tecnologica: noi siamo corpi intimamente e indissolubilmente ibridati con le cose che ci circondano. La versione più celebre di questa intuizione è probabilmente quella di Marshall McLuhan , per il quale i media sono estensioni dell'uomo che rimpiazzano una funzione precedentemente svolta dall'organismo. Lungo un asse concettuale che connette altri autori appartenenti a diverse aree del sapere, qui si esplora questo principio.

Il libro ha pertanto due obiettivi. Il primo è mostrare quanto l'intreccio che lega corpi, cose e mondo sia talmente fitto da costringerci a spostare il baricentro analitico dall'umano al non-umano: paradossalmente, per capire fino in fondo come funzioniamo dobbiamo indirizzare il nostro sguardo a ciò che ci circonda, come l'ambiente e le tecnologie. Il raggiungimento di questo obiettivo è legato a doppio filo al tipo di ricerca condotta, che privilegia un approccio altamente interdisciplinare. Attraverso una comparazione che coinvolge la mediologia, le scienze cognitive, l'archeologia cognitiva, l'estetica, la filosofia della tecnica e la biologia, mostrerò quanto l'attenzione al problema della relazione corpi-mondo-cose sia condivisa e permetta di annullare la distanza disciplinare. Questo è l'intento che ha animato dapprincipio la stesura del libro. Il secondo obiettivo, più ambizioso, è quello di fornire una personale interpretazione dei processi di relazione tra umano e non-umano a partire dalle contemporanee linee di ricerca delle scienze cognitive.

[...]

Infine, una considerazione che reputo molto importante. Il titolo del libro potrebbe suggerire un atteggiamento entusiasta nei confronti della tecnologia: ebbene, non è così. Ma non è neanche un testo contro di essa, perché in un certo senso questo lavoro precede la questione dell'essere a favore o meno della tecnologia. Il punto è che l'indagine che propongo non si pone come un'analisi etica del rapporto tra esseri umani e artefatti tecnologici, ma come un'esplorazione estetica. In altre parole, il libro non mira a fornire una ricetta su cosa sia giusto o sbagliato quando si usa un aggeggio, ma tenta di mostrare i principi di funzionamento generali dei processi di mediazione e gli effetti che producono sui nostri corpi e la nostra cognizione quando vengono indagati attraverso specifici studi di caso.

Due sono le ragioni che mi hanno indotto a fare questa scelta. La prima è che l'adozione di una prospettiva interdisciplinare ha implicato una mole di ricerca che, se accompagnata anche da una riflessione etica, avrebbe sovraccaricato a dismisura il progetto. Infatti, sebbene nel libro si faccia ricorso a vari approcci, in tutti i casi si tratta di metodologie e ricerche che non contemplano il piano etico. La seconda ragione è ancora più importante. Credo di averla ereditata dall'ecologia dei media e mi piace pensare che funga da antidoto al seguente problema: nell'investigare i processi di mediazione si corre il rischio di non osservare le cose per come sono, ma di descriverle per come si ritiene giusto che debbano essere. In altre parole, siccome l'accelerazione mediale contemporanea pone questioni cruciali e non concede il tempo di elaborarne bene le implicazioni, si può cadere nella tentazione di fornire modelli che guidino il comportamento senza aver necessariamente compreso il funzionamento di uno specifico medium e gli effetti percettivi, cognitivi, emotivi - quindi, estetici - che produce. In casi come questi il bias, o pregiudizio, è l'insidia più pericolosa. Osservare invece le interazioni, senza chiedersi preliminarmente se diano luogo a fenomeni giusti o sbagliati, è condizione essenziale per procedere poi verso una riflessione etica certamente imprescindibile, soprattutto se sarete persuasi come me dall'idea che la tecnologia siamo noi.

(dalla Introduzione -Messina, luglio 2019)
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AntonioGallo | May 6, 2021 |

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