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Destini. La fatalità del male

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Il mio giudizio sul libro. Il male vero può essere, purtroppo, tanto "fatale" quanto "banale". Segue la recensione e l'intervista di Davide Brullo all'autore:
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“Studente, il futuro Führer dormiva in un ricovero per senzatetto e campava disegnando cartoline. Bruno Nacci (che abbiamo intervistato) racconta i destini di cinque “mostri”, sulla frontiera del male.
In una delle pagine capitali dei Fratelli Karamazov, Dmitrij, a processo perché accusato di aver ucciso il padre, ha un sogno. Sogna un villaggio bruciato, una fila di donne annerite dal dolore, una madre che non riesce a placare il pianto del neonato: non ha cibo. Questa scena, straziante, non turba il contadino che accompagna Dmitrij su un carro, e che guarda alla sofferenza altrui con fatale e paga indifferenza. Dmitrij, invece, comincia a tormentarsi con una mitragliata di domande senza risposta, folgorato dalla radicalità di un Giobbe contemporaneo: perché l’uomo soffre? Perché chi soffre è costantemente punito? Perché gli uomini non ridono, non gioiscono, non fanno festa? Perché l’uomo è malvagio? Perché esiste il male? Dmitrij, “con l’impulsività dei Karamazov”, vorrebbe risolvere il problema aurorale, consapevole che anche lui è il sofferente e l’aguzzino, l’innocente e il colpevole. Nel grumo di questi paradossi, con rigorosa audacia, s’immerge Bruno Nacci, scrittore di talento (insieme a Laura Bosio, per Guanda, ha pubblicato Per seguire la mia stella e La casa degli uccelli), traduttore (soprattutto di Pascal), in Destini. La fatalità del male (Edizioni Ares, 2020). Il libro, francamente, è memorabile: per tensione formale e ingegno narrativo. Nacci, infatti, racconta la vita di cinque malvagi – compreso Seneca, di cui affascina l’esistenza corrusca, la contraddizione permanente tra il filosofo e il maestro di tiranni, e di cui è ipotizzata, tra le altre, una lettera a San Paolo –, ne sonda i lati oscuri, l’attimo, mi pare, in cui ferocia e bontà sono un unico ago di carne. D’altronde l’uomo – mai assolto – è questo rettilario di ambizioni e violazioni, di luce e ombra. L’esito è spesso spiazzante: Albert Speer, alto ministro nazista, ne Il giardino è visto come una specie di “vagabondo delle stelle”: recluso nel carcere di Spandau, sogna e descrive, dal 1955 al 1966, in onirico delirio, marce a piedi da “Benares, la splendente” alle “sconfinate distese della taiga”, dall’Alaska al Messico. Di Pol Pot si dice – in Il vento e il ventaglio –, per dire, la giovinezza a Parigi, l’animo “mite, giocoso e servizievole”, le “mani bellissime” (un carisma: chi ha mani fatate, ben curate, le usa per ordire torture), il talento calcistico, fino all’asserzione che sbigottisce: “so solo di essere stato amico fraterno, come tutti noi, di un giovane gentile che ci precipitò nel baratro”. Il libro, comunque, va letto a partire da Lo studente, racconto impeccabile in cui Nacci – senza nominarlo – ci mostra il giovane Hitler, accolto in un ricovero di senzatetto, che vive “vendendo cartoline illustrate che riproducevano i principali monumenti della città”. Con i soldi, il ragazzo si permette qualche serata all’Opera: l’arte, la bellezza, lo splendore lo inebria, ma, in una specie di catarsi capovolta, moribonda, lo infiamma contro un tempo dominato da ingiustizia, avidità, prostituzione, retto dal denaro, una serpe in mano agli ebrei. “La musica mi ha fatto capire. La bellezza mi ha fatto capire. E non ci possiamo aspettare salvezza da nessuno”, dice il ragazzo, che comincia a esercitare una imprevista, improvvisa, demoniaca qualità oratoria. I dettagli con cui lo scrittore ci porta a un palmo da Hitler – “indossava sempre guanti neri di pelle glacé, un po’ troppo raffinati, sottili e attillati come quelli delle signore”; “aveva belle mani, bianche e ben curate, che uscivano dai polsini immacolati”; “quella voce rauca che all’improvviso s’impennava in toni duri, metallici, per poi acquietarsi”; “poi guardò il suo pubblico intimorito, di cui non poteva distinguere più i volti, lo guardò con ispirazione e da una lontananza che metteva a disagio” – sono vivi e potenti. Di quello studente percepiamo l’odore e l’ansia, il sudore e le ragioni e l’ordalia dei ragionamenti. Ci è di fronte. Questo fa la letteratura. Non giudica, non giustifica: mostra. La brama, la bava di luce che diventa voragine, grido.

Domanda superficiale: perché questi cinque ritratti, ‘destini’ e non altri? Che cosa la lega proprio a loro, tanto da tradurli in vita verbale, in narrazione?

Da sempre provo una particolare inclinazione per due aspetti della pratica narrativa: l’agnizione e la metamorfosi, da non confondere quest’ultima con la semplice evoluzione di un carattere. In entrambi i casi il soggetto è e non è quello che appare, ma non per scelta, convenienza o pressione delle circostanze, bensì perché subisce il tempo obbedendo al destino, sottraendosi alla cristallizzazione (Stendhal!) a cui gli altri, e magari egli stesso, tendono come a un porto rassicurante. Da qui l’ambiguità di ogni metamorfosi e conversione. Quando Lutero ammonisce che nessuno nella confessione è certo di dire la verità sui propri peccati, riprende un concetto caro ad Agostino: si può essere sinceri e non dire la verità, come si può dire la verità senza essere sinceri. Ciò innesca un formidabile strumento narrativo, penso ad esempio a L’homme qui rit di Hugo per l’agnizione, e al Michael Kohlhaas di Kleist, per la metamorfosi (citare Kafka sarebbe troppo facile), perché incrina all’origine la fissità del personaggio, lo sottrae a una scontata identificazione. Semplificando, Destini narra di cinque metamorfosi, colte all’inizio o alla fine di cinque vite molto diverse tra loro ma che hanno segnato un’epoca. Perché questi cinque ritratti? Indubbiamente perché nel corso degli anni alcuni di essi mi hanno stregato. Albert Speer, che giunto in cima alla gerarchia nazionalsocialista, in seguito sembra ritenersi estraneo, senza rinnegare niente, rimanendo in un’aura di sospensione come se ciò che era accaduto non lo riguardasse. Hitler stesso, da cui gli scrittori tendono a tenersi alla larga, e che è uno dei tanti macellai della storia, non l’unico, ma andrebbe indagato più nel profondo, sospendendo il giudizio consolatorio secondo cui sarebbe stato un pazzo. Personaggio shakespeariano tragico e fosco, che ho voluto immaginare quando era un diseredato ospite della assistenza pubblica a Vienna, già contagiato dalle sue ossessioni. Loan, il capo della polizia del Vietnam del sud durante l’occupazione americana e in seguito anonimo proprietario di un ristorante in Virginia. Uomo spietato, che una celebre fotografia aveva immortalato mentre assassinava a sangue freddo un vietcong per strada, ma con cui il suo fotografo, anni dopo, si scuserà, ribaltando un’icona della campagna contro una guerra scellerata e rivelando un atroce retroscena. Pol Pot, il sanguinario Segretario del regime khmer rosso, ombra sinistra che sterminò quasi metà del suo popolo, e che in tempi lontani era stato un timido e gioviale studente a Parigi, ottimo giocatore di calcio. E infine Seneca. Qualcuno mi ha chiesto cosa ci faccia una grande figura del pensiero occidentale in una compagnia così brutale. Rispondo che i crimini di Seneca, rispetto a quelli degli altri personaggi, sono certamente minori, ma era Seneca! Mi affascinava nelle sue opere il contrasto tra l’altezza del suo pensiero e l’oscuro sentimento, che traspare in modo evidente, di non essere ciò che avrebbe voluto, o addirittura di esserne diventato la negazione. Trovo questi personaggi, di cui ho rispettato i principali tratti storici, esemplari di una metamorfosi che li ha inesorabilmente trasformati e che, se non li giustifica, ci permette però di considerarli uomini, togliendo a noi l’alibi di avere a che fare con dei mostri.

Come ha lavorato dentro le vite degli altri? Specifico. Ciascun racconto ha una sua particolare struttura narrativa, autonoma, peculiare, non replicabile, quasi che la ‘forma’ letteraria adottata si adattasse all’anima, al fato di chi racconta.

Potrei rispondere ironicamente: secondo il metodo Stanislaskij! Che poi in parte è vero per chiunque scriva in modo non seriale. In ognuno di questi racconti, preparato da puntuali letture storiche, ho cercato non solo di immedesimarmi, prescindendo da ogni giudizio e pregiudizio morale, ma anche di cogliere dall’interno il senso delle situazioni e dei caratteri. Questo ha richiesto molto tempo (ho scritto i racconti nell’arco di una quindicina d’anni), lunghi periodi di decantazione, ripensamenti e correzioni di prospettiva, cercando di non dare l’impressione di una “revisione” storica, da cui sono lontano anni luce, o peggio di un’adesione acritica al personaggio al punto di concepirlo in una sorta di colpevole innocenza. Tutto questo ha richiesto una certa cautela. Nel caso di Hitler, ad esempio, ho tolto una pagina in cui il giovane sbandato “vedeva” una famiglia di ebrei sotto forma di animali. La pagina era però troppo cruda e temevo che turbasse i sentimenti di un lettore di religione ebraica o peggio servisse a qualcuno per confermare assurdi rigurgiti antisemiti. Chi scrive, penso, ha anche il dovere di rispettare i sentimenti dei suoi lettori, senza per questo cadere nel politicamente corretto, come si usa dire, o nello stereotipo. La forma letteraria, o struttura narrativa come lei la chiama, la avverto nell’atto di scrivere come una necessità dei personaggi e del tempo in cui si svolge la narrazione. Ho trovato subito ideale la formula del racconto epistolare per Seneca, sia perché Seneca stesso ha adottato nel suo capolavoro questa forma, sia perché mi permetteva di fargli esprimere direttamente i minimi moti del suo animo in prossimità della fine, senza doverli scorciare o interpretare in un racconto in terza persona. Nel caso di Speer, per quanto possa sembrare bizzarro, il racconto del suo stratagemma per trascorrere i vent’anni che dovette espiare nel carcere di Spandau (lo ricorda nelle sue memorie), spesso si avvale di una minuziosa descrizione dei luoghi, che mi è costata qualche ricerca (storia, botanica, astronomia) ma che è anche il riaffiorare di certe sensazioni di un mio lontano viaggio giovanile. In questo caso, credo, ho un po’ sconcertato il lettore, che può non afferrare subito di cosa si sta parlando, ma anche questo era funzionale al “delirio” di Speer e alla sua particolare inclinazione ad attraversare le esperienze nella lontananza e indifferenza. La forma dell’appunto di viaggio (un viaggio immaginario descritto in termini realistici!) sta a metà tra la confessione e la temperie onirica in cui volevo immergere il personaggio, sfuggente, indecifrabile, pieno di contraddizioni, che però nel racconto andava in qualche modo risolto. Più facile la narrazione del giovane Pol Pot, con la tragica sequenza finale, e del generale Loan, per cui mi è venuta spontanea la scelta del racconto-reportage, assemblando i dati storici e lasciando che queste figure, a cui in genere associamo un ritratto tanto negativo quanto vago, si stagliassero sotto altri cieli e quasi, direi, in altri mondi. In ogni racconto, poi, mi sono preoccupato di creare l’attesa di un piccolo colpo di scena, una deviazione, quasi uno scambio ferroviario, che lasciasse nel lettore una particella di stupore.

Perché quei singoli, particolari momenti? Perché Hitler studente, ad esempio, in un ricovero? Ha scelto il momento decisivo di una scelta, un po’ come i Momenti fatali di Zweig? Si è inoltrato nei margini oscuri di esistenze quasi totalmente ‘pubbliche’? Mi dica.

Zweig, scrittore che amo, osserva le cose da lontano, se posso esprimermi in modo sommario, con una specie di occhiale storico, commenta e giudica raccontando, si rammarica, davanti a lui sfilano personaggi colti in campo lungo, che vivono esclusivamente nel dispiego delle loro azioni. Al suo posto preferirei fare il nome di Marcel Schwob (si parva licet componere magnis…). O meglio la sua poetica. Nell’introduzione alla Vite Immaginarie, mentre difende la sua propensione a ritrarre i dettagli, le particolarità degli individui, noti o anonimi che siano, parlando di Aubrey Beardsley, incisore e scrittore della fine Ottocento molto attento alla singolarità dei ritratti, scrive: «Ma non è un grande artista come Holbein. Non sa fissare per l’eternità un individuo attraverso i suoi tratti caratteristici su uno sfondo di somiglianza con l’ideale». Perché l’arte della biografia non risiede nell’accumulo di dati (quegli inutili zibaldoni dove apprendiamo anche quanto pagava per lavarsi i calzini il personaggio di cui si parla, che paradossalmente rimane fuori dal racconto, penso al Baudelaire di Pichois e Ziegler), nell’indugio su dettagli insignificanti lasciati a se stessi. Io cerco di attenermi alla regola di Schwob: mostrare un carattere o una vicenda negli aspetti concreti e in genere trascurati senza abbandonarsi per questo al pregiudizio o alla caricatura, e senza dimenticarne la collocazione storica più generale. Nel racconto sul generale Loan, implacabile torturatore, ad esempio, ho inserito il suo amore per le rose, ma anche il macabro pranzo con la scimmia viva. Sono estremi che sembrano inconciliabili e che pure lo descrivono, credo, nella sua altrimenti incomprensibile crudeltà. Sarebbe stato troppo banale e manieristico descrivere la ferocia con cui si accaniva sui prigionieri o una sua insensibilità totale alla bellezza. Purtroppo, come sappiamo, un animo sensibile alla musica può essere un temibile boia. Come lei ha colto, mi interessava di questi cinque personaggi storici il lato privato, la zona impenetrabile allo sguardo dello storico, o quasi. Sono un fautore della immaginazione storica. Là dove la ricerca storica si arresta, la letteratura non deve avere timore di addentrarsi, di tentare di ricostruire, sia pure per scorci, l’essenza vivente di certi uomini che per consuetudine abbiamo reso semplici funzioni del loro tempo e della loro società. Che un tiranno come Hitler in un certo momento della sua vita abbia vissuto tra i miserabili, che si sia mantenuto disegnando cartoline, è stupefacente solo fino a un certo punto. Non è nato Hitler! Raccontare di quell’uomo, uno tra mille, infreddolito e senza risorse, che entra in un dormitorio pubblico prima della prima guerra mondiale, mi sembrava una storia capace di illuminare la sua vita ma in fondo anche la nostra.

Che cos’è quindi il male, perché è fatale?

Sia Plotino che Agostino e Tommaso concepiscono, con sfumature diverse ...

Continua qui al link: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/interviste/nacci-destini-h...

Davide Brullo - L'Intellettuale Dissidente ( )
  AntonioGallo | Dec 19, 2020 |
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