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Quite a Good Time to Be Born: A Memoir: 1935-1975

por David Lodge

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'I drew my first breath on the 28th of January 1935, which was quite a good time for a future writer to be born in England...' The only child in a lower-middle-class London family, David Lodge inherited his artistic genes from his musician father and his Catholic faith from his Irish-Belgian mother. Four years old when World War II began, David grew to maturity through decades of great social and cultural change - giving him plenty to write about. Candid, witty and insightful, Quite a Good Time to be Bornilluminates a period of transition in British society, and charts the evolution of a writer whose works have become classics in his own lifetime.… (más)
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J'attendais plus d'humour et moins de grandes déclarations sur le catholicisme de l'auteur, trop présent, voire pesant tout au long du récit... que je n'ai d'ailleurs pas fini, tellement la vie de ce monsieur m'a semblée ennuyeuse et pédante. ( )
  pangee | Dec 9, 2022 |
“Scrivere è un piacere che mi riempie di frustrazione”. La guerra, l’infanzia modesta, l’università, l’amore per Mary (la moglie) e per Joyce: “Ecco le confessioni dei miei primi 40 anni”.
Caterina Soffici intervista l'autore per "Tuttolibri" su "La Stampa".

Lo humor tagliente di David Lodge, 82 anni, scrittore e critico letterario inglese, non ha mai risparmiato nessuno. E’ riuscito a ironizzare anche sulla propria sordità, oltre che sulle nevrosi degli scrittori e si è fatto beffe del mondo universitario, con una trilogia dedicata alle miserie accademiche, che ben conosce per essere stato a lungo professore di letteratura inglese all’Università di Birmingham. Quando si tratta di interviste invece, diventa serissimo e minuzioso. L’occasione è l’ultimo libro, un memoir dove racconta i suoi primi quaranta anni. Cioè dal 1935 al 1975. Poi ci sarà un seguito, per coprire i restanti quaranta e rotti. Il titolo è curioso: Un buon momento per nascere. Che proprio buono, così a naso, non sembrerebbe, visto che di lì a poco l’Europa sarebbe stata travolta dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel libro Lodge ripercorre in maniera meticolosa l’infanzia e la giovinezza, cosa voleva dire crescere in una famiglia di origini modeste nell’Inghilterra del dopoguerra, con un padre musicista di strada spesso senza lavoro e la madre irlandese. E poi gli anni allo University College di Londra, l’incontro con Mary, sua futura moglie e le tribolazioni della vita coniugale da giovane coppia cattolica, la nascita del primo figlio, gli anni di apprendistato da professore e da scrittore, fino alla cattedra all’Università di Birmingham, l’amicizia con il collega e scrittore Malcolm Bradbury e poi il primo successo.

Perché pensa che nascere nel 1935 sia stato un buon momento?
«Perché se sopravvivevi alla guerra senza perdite o ferite, per un futuro scrittore la vita sociale e culturale era piena di nuove opportunità interessanti, soprattutto per uno come me con un background da middle class. Mi ha dato un sacco di spunti per scrivere».

Quando ha capito che avrebbe voluto diventare scrittore?
«Tra i 15 e i 16 anni, quando ho iniziato a interessarmi alla letteratura, specialmente narrativa e teatro. Mi affascinava l’idea di imparare le cose della vita tramite questi strumenti. Lì è nata la speranza che un giorno sarei stato capace di avere lo stesso effetto sugli altri».

Qual è stato il momento peggiore di questi primi 40 anni?
«Quando mia moglie Mary ed io abbiamo scoperto che Christopher, il nostro terzo figlio, aveva la sindrome di Down. Ci avevano fatto delle previsioni eccessivamente pessimistiche sulla sua possibilità di miglioramento, che invece è stato impressionante».

E il più felice?
«Probabilmente svegliarsi una mattina di gennaio del 1975 e leggere le prime recensioni entusiastiche del mio Scambi [il primo romanzo della trilogia sui professori, ndr], che è stato il momento di svolta della mia carriera».

La sua generazione è stata la prima a poter usufruire dell’Education Act, che permise l’accesso agli studi universitari anche alle classi meno abbienti. Un confronto con l’università di oggi?
«Quando nel 1952 ho iniziato il mio corso all’University College London, nelle università inglesi c’era posto solo per il 5% degli studenti della mia fascia d’età. Le ammissioni erano molto competitive, non si pagavano tasse e c’erano sussidi per i bisognosi. Il sistema di oggi è strutturato per accogliere il 40% degli studenti. Non c’è Paese che possa permettersi di dare una istruzione di alta qualità gratis a così tante persone, quindi alle università sono stati applicati modelli di business. C’è del pro e del contro in entrambi i sistemi».

Lei è un cattolico osservante e le sue tribolazioni con il sesso, la masturbazione, il bere sono stati anche fonte di ispirazione letteraria. Se fosse giovane adesso?
«Molti giovani cattolici della mia generazione hanno avuto problemi di coscienza circa la masturbazione. Ne scrivo in Quante volte figliolo? Ma non è stato un problema mio personale, per la verità, perché da adolescente non conoscevo né l’atto né la parola. In età adulta ho avuto problemi con l’astinenza sessuale prima del matrimonio. E poi con il controllo naturale delle nascite».
Dopo il terzo figlio avete deciso di essere meno ortodossi...

«Abbiamo risolto la questione in altri modi rispetto a quelli di Sacra Romana Chiesa. Ma se fossi stato giovane oggi avrei fatto sesso prima del matrimonio, come tanti altri giovani cattolici».

Nel libro cita quattro cose che hanno cambiato il mondo: 1) la tv sempre e ovunque 2) i viaggi low cost 3) la pillola 4) il microchip. Quale è stata la più importante, secondo lei?
«Senza dubbio il microchip e la rivoluzione digitale. I cui effetti però non sono tutti benefici. Internet è una magnifica fonte di informazione istantanea. Ma è anche fonte di tante cose nocive, come la pornografia, il razzismo, il bullismo e i tweet del presidente Trump».

Lei è nostalgico dell’era dorata quando si stampavano pochi libri e gli scrittori potevano ancora vivere di scrittura, vero?
«Si. E per varie ragioni connesse alla rivoluzione digitale di cui sopra. In Gran Bretagna i giornali erano una fonte di reddito per gli scrittori. Ora sono vicini all’estinzione. E lo stesso vale per i libri nell’Era di Amazon, che ha ridotto al minimo anticipi e royalties. A me ormai non interessa più. Mi preoccupo per i giovani scrittori».

Nel 1987 lei è andato in pensione anticipata per diventare scrittore a tempo pieno. Si è mai pentito?
«Mai. Della vita accademica mi piacevano gli stimoli intellettuali e la possibilità di viaggiare, ma non l’amministrazione e l’inevitabile ripetitività. Mentre per uno scrittore ogni cosa è una sfida e dà nuove opportunità di scoperta».

E’ più difficile oggi scrivere fiction, in un mondo così ossessionato dalla realtà?
«La letteratura riguarda comunque la realtà, anche se una storia è pura invenzione. Dall’alba della civilizzazione la narrazione è stata il primo strumento per capire l’esperienza umana. La comunicazione istantanea di oggi ha reso forse più difficile scrivere “fiction pura”, perché nel passato i lettori si abbandonavano al racconto del narratore, mentre oggi, connessi alle news 24/7, si aspettano lo stesso tipo di autenticità nella fiction».

Per lei scrivere è più un business o un piacere?
«E’ una vocazione. E’ l’unica cosa che so fare veramente bene. Per questo metto tutto in gioco quando scrivo un nuovo romanzo, che mi prende due o tre anni. Un romanzo è una merce oltre che un manufatto. E oggi agli autori è richiesto di partecipare anche al processo di vendita e promozione. La parte piacevole è meno predicibile: certi giorni sei felice perché le parole fluiscono bene. Altri sono di frustrazione, sei pieno di dubbi o perdi la fiducia nel progetto. E per andare avanti devi per forza risolvere questi problemi».

Cosa la rende felice, alla fine?
«Quando tu stesso sprofondi con piacere nel libro. Quando il libro raccoglie una ampio consenso, specie dalle persone che tu rispetti e ritieni importanti – amici cari, l’agente, l’editor, i recensori, i lettori che ti scrivono. Soprattutto quelli che dicono che gli è piaciuto a una seconda lettura».
I suoi autori preferiti sono James Joyce, Graham Greene e Henry James. Se dovesse sceglierne solo uno?
«Sarebbe James Joyce. Nel libro spiego perché».

( )
  AntonioGallo | Nov 2, 2017 |
Mostrando 2 de 2
As a memoirist, he remains duty-doing, his prose the equivalent of someone wearing a tie knotted so tightly at the neck it threatens to throttle the wearer. He writes about himself as if about someone else: Lodge the literary critic writes about Lodge the novelist as if the two were not the same man. Commentaries on his own work are excruciatingly self-conscious
añadido por Milesc | editarThe Observer, Kate Kellaway (Feb 1, 2015)
 

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A Mary, avec tout mon amour
Primeras palabras
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Je suis venu au monde le 28 janvier 1935, moment faste pour un futur écrivain né en Angleterre et appartenant à une famille de la classe moyenne la plus modeste comme la mienne, malgré les sombres menaces qui planaient sur l'Europe. Cela signifiait que j'aurais beaucoup de choses à écrire et que je recevrais une éducation qui, bien qu'imparfaite jusqu'au niveau secondaire, me donnerait les outils et la motivation pour le faire. Âgé de quatre ans et demi lorsque la Seconde Guerre mondiale a éclaté, de dix ans et demi quand elle s'est terminée, j'ai quelques souvenirs personnels de ce combat épique, charnière autour de laquelle a tourné tout le XXe siècle.
Citas
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Aviso de desambiguación
Editores de la editorial
Blurbistas
Idioma original
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DDC/MDS Canónico
LCC canónico

Referencias a esta obra en fuentes externas.

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'I drew my first breath on the 28th of January 1935, which was quite a good time for a future writer to be born in England...' The only child in a lower-middle-class London family, David Lodge inherited his artistic genes from his musician father and his Catholic faith from his Irish-Belgian mother. Four years old when World War II began, David grew to maturity through decades of great social and cultural change - giving him plenty to write about. Candid, witty and insightful, Quite a Good Time to be Bornilluminates a period of transition in British society, and charts the evolution of a writer whose works have become classics in his own lifetime.

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